Vincenzo Crolla

La cardarella

La cardarella

Come in un caleidoscopio
Non che ci fossimo conosciuti granché. Ché, mentre io lasciavo lui entrava.
E, quando ci eravamo incontrati in Via Torino, forse trent’anni fa forse più, non era stato per una qualche petizione o lagnanza ché non avevo da portarne, ma per trovare ascolto si. Perché quell’amarezza mi rodeva e volevo che non restasse tutta dentro di me. Cercavo uno con cui condividerla. E trovai lui. Con una stazza ed un naso decisamente improbabili ma con un carico di umanità direttamente proporzionale alla sua figura incongrua.
L’ho ritrovato casualmente qui. Grazie alla magia che questo luogo, a volte, improvvisamente regala. Come un’Epifania, come una meraviglia.
Ci siamo sentiti allora E ci siamo visti. Ad un tavolo di quello che sta diventando, lentamente ma tenacemente, il nostro luogo: il Caffè Azar. Luogo di aneddoti, di ricordi, di cazzeggio puro e di elaborazione di serissime teorie sull’evoluzione dell’Universo o sulla sua definitiva involuzione e scomparsa.
E lui, Vincenzo Moretti, ha voluto portare con se, spiazzandomi, ché io ero arrivato a mani vuote, il suo libro; il suo primo romanzo, esprimendo il desiderio che lo leggessi ed elaborassi un pensiero, un’opinione. Non una recensione, che non è cosa da dilettanti come me. E così, eccomi qui, precipitato nel ruolo di Tonino, uno dei personaggi del suo libro, che chiamato a recensire l’opera di due sue amiche, premette e dichiara, già nell’incipit, il suo “conflitto d’interessi”. Un interesse immateriale ovviamente, perché solo di affetto si tratta. Esattamente la stessa cosa che è capitata a me negli ultimi mesi. Perché non è la prima volta, che vengo chiamato da persone amiche a dire la mia sulle cose che hanno sentito di dire a sé stessi, innanzitutto, e, poi, agli altri pubblicamente: come una confessione, come una seduta terapeutica, come il bisogno di sgravare, con più o meno dolore. Solleticando molto la mia vanità, ma anche addossandomi un’enorme responsabilità: che dire se il libro non ti è piaciuto? Quali parole scegliere, parole diplomatiche, per dire e non dire, per alludere con gentilezza? Per usare solo il carboncino a dipingere un gradevole bozzetto in chiaroscuro ed evitare di essere troppo crudamente ruvido, tanto da arrecare offesa? Non è facile credetemi. Ma, i miei amici, tutti, mi hanno sollevato da questo indicibile imbarazzo. I libri che ho letto sono stati tutti delle vere e proprie miniere di emozioni e di commozioni e di ricordi. E “Testa, mani e cuore” di Vincnzo non si è sottratto a questa regola confermandomi che spesso gli autori, i grandi autori, restano, per qualche strano mistero, sconosciuti ai più.

Perché questo è un bel libro. Un bel romanzo. Che intanto mi ha confermato una mia convinzione di sempre: che la filosofia, cercando famelica la realtà, finisce spesso con l’arenarsi sulle spiagge della fantasia. E che, al contrario, la letteratura, giocando a rimpiattino con la fantasia, trova, negli angoli più impensati, con grazia, la realtà. E così fa questo romanzo; che mette al centro la vita, quella vera, col suo carico di fatica, di sudore, di gioia e di dolore, di empatia, di amicizia, di affetto e di solidarietà. La vita e l’umano. A qualcuno potrà apparire iperbolico il paragone con le tele del Caravaggio che, forse per primo, oltre a indicare tecniche e modalità della scenografia, comincia a far scendere i suoi dipinti dalla poetica impalpabilità dei sette cieli alla più terrena, sanguigna e carnale vita vera. Così Giuditta che taglia la gola a Oloferne o il baro al tavolo da gioco o, ancora, la zingara che mentre legge la mano all’incauto gentiluomo, con destrezza, gli sfila l’anello. L’altra cosa che mi era risalita alla memoria era Lee Masters e la sua Antologia, ma lì, a raccontarsi, sono, con tutto il loro carico di umanità e di dolore, le persone. Quelle che non ci sono più e che si raccontano coi tempi dell’inevitabile imperfetto. A raccontarsi qui, invece, come in un caleidoscopio, sono le persone, gli oggetti, i concetti e le filosofie.
Dalla “cardarella” del muratore, al barbiere, al tempo sulla bocca della nonna che lo racconta alla nipotina. Un caleidoscopio si. Uno di quegli oggetti che i bambini di un tempo, piccoli artigiani in erba, i propri giochi li costruivano da soli, con le proprie mani e la propria fantasia, realizzando i loro capolavori senza troppe alchimie tecniche e senza il supporto di astruse filosofie.
Con questo libro Vincenzo Moretti mi ha ricordato che nel mondo delle tecnologie sofisticate, l’umano non è negletto ma che, al contrario, riesce a servirsi di loro per affermare con un sorriso, ma anche con la giusta determinazione, che lui c’è ancora. E che, ancora, fa molto bene il proprio lavoro.

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