L’autore, che in questo periodo sta lavorando alla seconda edizione de La Notte del Lavoro Narrato, ama ripetere spesso «qualunque cosa tu abbia scelto di fare, fallo bene”; io, forse più realisticamente, direi “cerca di farlo bene”.
In questo romanzo fatto di tanti racconti il tema del lavoro è preminente. Non mancano spunti filosofici all’interno di un percorso di vita con persone a lui care e tratti di particolare ironia napoletana e come accade nella vita reale, vicende dolorose con la vitale commozione che ne consegue.
Scevro da ogni tipo di retorica, penso che momenti come quelli che stiamo attraversando e l’occasione che ci offre l’autore rispetto al romanzo e al lavoro a cui si sta dedicando, ci impongano parole e intenzioni serie.
In un contesto sociale come quello attuale, iniziative dello stesso tenore, in ogni caso come quelle che Moretti sta sviluppando in più parti del nostro Paese dovrebbero moltiplicarsi ancora di più e non solo in Italia.
Siamo soffocati e incalzati da segnali negativi da ogni angolo del pianeta e in Italia la fanno da padrone, la mala politica, la corruzione insieme alla malavita organizzata, una disoccupazione pesantissima per i nostri giovani, forse l’elemento più drammatico, iniziative di guerra vicino alle nostre aree e oltre.
In tutto queste brutture emerge l’odio tra gli essere umani, perché ogni ragione sembrerebbe quella vera, per cui ognuno si sente portatore di verità. Ma l’odio chiama altro odio e solo la cultura, a qualunque livello, è in grado di restituire agli uomini la capacità di dialogare e quindi di risolvere i problemi prima dell’irreparabile.
Il lavoro e con esso la cultura più nobile che lo rappresenta – ci dice l’autore e come si può non essere d’accordo -, è un tema dominante ed è allo stesso tempo una branca essenziale della nostra vita. La mancanza di lavoro o le modalità con il quale viene attuato indirizzano la civiltà e quindi la cultura e quindi il dialogo. Ogni rifiuto della cultura in generale porta alla conseguenza del “muro contro muro”, producendo livelli di oscurantismo del quale la storia dell’umanità è piena sin dalle proprie origini.
Dialogare è cultura di tolleranza e di solidarietà e talvolta di floridezza economica.
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Patrizia Carnevale
Ciao Vincenzo,
i tuoi racconti mi stanno sfrocoliando una marea di idee; alcune storie hanno un “back-stage” emotivo, psico-drammatico, raccontato con una leggerezza stilistica struggente, che davvero fanno capire che le scelte dei protagonisti riguardo alle svolte di vita e ai lavori “inventati”, nascono da condizioni storiche e sociali inique, ingiuste.
Siamo sempre a bomba con la stessa tragica domanda: come abbiamo potuto permettere che si smantellasse un sistema, non perfetto ma perfettibile, per assistere impotenti a una restaurazione … ossia ad una vera dittatura dei potentati economico-finanziari.
E’ arrivato il tempo di riappropriarsi della qualità della vita; intanto si, narriamolo il lavoro, inventiamolo, ma cerchiamo di uscire da questa morsa soffocante!!!
Ecco, volevo dirti questo e poi vorrei dire ancora un milione di cose e mi piacerebbe davvero avere un confronto diretto con te, a voce, davanti ad un buon bicchiere, magari in compagnia del nostro comune amico … Amico!!
Gabriella Crivellaro
In una fresca sera di luglio, giunta oramai quasi al termine della magnifica esperienza Camp di Grano 2014, arriva come ennesima bella sorpresa la lunga, amichevole chiacchierata con Vincenzo (Moretti) sul tema: “il lavoro fatto bene”, tema su cui lui ha scritto un libro e di cui continua ad occuparsi con grande passione.
Metto da parte quel filo di rammarico per non averlo conosciuto prima così da partecipare attivamente a quel progetto, e mi sento colma di gratitudine per averlo conosciuto almeno adesso.
Mantenere ben saldo – al di là di tutto – il proprio orgoglio umano e professionale di saper fare “bene” il proprio lavoro, di questi tempi, con il pressapochismo che, sempre più arrogantemente, annebbia praticamente tutto il panorama a vista d’occhio, non è affatto facile.
Ma, a saper guardare, ci sono moltissimi esempi di tante altre persone che, come me scelgono -comunque sia- la strada della serietà professionale con vivace e sempre rinnovata energia. “Sentirsi parte”, riconoscere tra i propri amici e collaboratori più stretti altre persone che vivono e lavorano mettendo sullo stesso piano “testa, mani, cuore” da una grande gioia, un forte slancio alla speranza.
Come prima di me mio padre e mia madre -prima ancora ispirati dai nonni e chissà da quante generazioni- insieme ai miei otto fratelli, ed anche grazie ai buoni maestri che ho avuto la fortuna di trovare sulla mia strada, ho a cuore il mio lavoro; che sia un complesso progetto grafico che va a buon fine (…non di rado faticoso come un parto plurigemellare!), o una siepe di ribes che porta frutti in abbondanza, o cose ancora più piccole ma non certo meno importanti.
Quando senti che “vivere” e “possedere un mestiere” vanno di pari passo, non puoi non sentire gratitudine per l’immensa fortuna che possiedi. Mi auguro di saperla anch’io tramandare ai miei figli, e a tanti altri.
Grazie Vincenzo per avermi aiutato a metterlo a fuoco.
20 Agosto 2014
Sono molto contento del cammino fatto fino ad oggi con Testa, Mani e Cuore.
107 recensioni e commenti, 30 presentazioni, 1098 “mi piace” su Facebook, migliaia di donne e uomini che sono entrate nella mia vita grazie a una stretta di mano, una dedica, un commento, una citazione, un post sui social network, tanti nuovi progetti che sono nati anche grazie alle relazioni e alle connessioni che tutto questo ha determinato.
Ma sì, se ci penso dire sono molto contento è poco, in realtà sono felice, e quando leggo le cose che avete scritto dopo aver letto il libro spesso mi commuovo, e però, anche se l’avete già capito ve lo dico lo stesso, tutto questo che è sicuramente tantissimo non è ancora abbastanza.
Si, possiamo fare di più. Più lettrici e lettori, più recensioni e commenti, più presentazioni, più diffusione sui social network, più, più, più.
Sì, avete letto bene, ho scritto possiamo, e non è tanto per dire, perché senza il vostro aiuto, le vostre proposte, le vostre iniziative, la vostra capacità di mobilitazione, io non vado da nessuna parte.
Ecco, mentre ci pensate su vi ripropongo l’intervista registrata a margine della presentazione del 27 Giugno a Policoro, che per adesso è l’ultima, ma io spero tanto lo sia ancora per poco.
Resto in ascolto. Vi voglio bene. Come sempre a prescindere.
Gaetano Fimiani
Ho letto con molto piacere il romanzo di Vincenzo Moretti, con la sua struttura di un racconto cornice che sottende un catalogo di storie brevi esemplate sul rapporto tra l’uomo e le cose. L’ho letto con piacere perché se riteniamo che la società abbia il compito primario di educare cittadini e non utili impiegati, servili, arrendevoli ed infine alienati, e se la letteratura aiuta quanto la cultura scientifica alla formazione del senso, da contrapporre ogni giorno alla formazione del consenso e dell’omologazione, allora cultura umanistica e cultura tecnica devono essere convergenti e complementari. E questo libro lo ribadisce.
Ragionando attorno alla figura di Nikolaj Leskov, un narratore russo dell’Ottocento, il critico Benjamin accostava la figura del narratore tradizionale a quella del giusto: a quella cioè di colui che osserva e che conserva ciò che osservando ha imparato, facendosene testimone e tramite per la collettività. Compito del narratore così inteso è “ lavorare la materia prima delle esperienze”. Le figure tratteggiate da Vincenzo sono bellissime e l’articolazione, che vado ad illustrare, ha una solidità indiscutibile.
Intorno a sette capitoli che raccontano la vicenda di malattia di Libero, fratello del narratore Cosimo, si articolano blocchi narrativi che sono intersecati e quasi osmotici fra di loro. E’ il lavoro visto dalla molteplice rifrazione letteraria dei suoi strumenti (cinque racconti), dei luoghi (quattro racconti) delle idee (quattro racconti) e del futuro (quattro racconti). Raramente ho trovato nei libri degli ultimi anni una disposizione così coinvolgente, mossa dall’intento dell’autore di servirsi della letteratura come tramite di conoscenza dell’esperienza umana. Nei racconti che formano il romanzo di Moretti, mi pare si possa argomentare che la scrittura stessa sia uno strumento per costruire una dimora, nel romanzo di Moretti ci si abita imparando a familiarizzare con l’esistenza e a contemplare la mappa delle sue possibilità. Più densa ed eloquente della nostra vita quotidiana, la sua pagina, intrisa del rispetto etico per il lavoro fatto bene, amplia il nostro universo e ci stimola ad immaginare altri modi di concepirlo ed organizzarlo. Già Primo Levi ne L’altrui mestiere ci ricorda che una distinzione fra letteratura arte e tecnica non la conoscevano né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Dante, né Galileo e tantomeno Goethe. Quello che la modernità si è disabituata a fare è pensare alla complessa interrelazione fra le cose, divario che ha preso sempre più campo in seguito all’automazione digitale. Oggi non si è più a conoscenza delle competenze per produrre un manufatto, la stessa realtà assume sfumature di virtuale. Nel testo di Moretti prende corpo l’idea che il testo letterario sia un potente strumento con il quale è possibile recuperare il senso del lavoro. Moretti parte dallo strumento più semplice la cardarella, in cui consiste il fondamento del palazzo multipiano. Sollevata sulle spalle di lavoratori in equilibrio verso il cielo, la cardarella parla in prima persona, tonalità prevalente nel romanzo. Dalla cardarella si passa al vocabolario, alla necessità avvertita dallo stesso Di Vittorio che per parlare di lavoro e per il lavoro è necessario dare un nome alle cose: è uno dei miei preferiti, sembra di veder sfogliare le pagine. Un oggetto più complesso il kanban, tramato sul filo della sostituzione della meccanica fordista all’automazione giapponese, con tutte le derive di prospettiva che ne conseguono sul piano dell’occupazione e del ruolo dell’operaio. Il ritorno nostalgico al veicolo di lavoro per eccellenza, l’Ape, che diventa il locomotore del desiderio d’amore del protagonista in un viaggio dove le lotte sindacali si stagliano sullo sfondo di un amore maturo. Infine la nuvola, simbolo stesso dell’immateriale che si compone in tante forme diverse che parlano al cuore. E badate che ho parlato solo di un’ipotesi interpretativa tra le molte possibili. Proviamo a tracciare almeno un altro percorso iniziando dal secondo racconto. Il titolo spia è il lavoro e le persone, e già qui si potrebbe affermare che le cose esistono perché ci sono le persone che attraverso di esse danno un senso alla propria vita. Percorso che inizia da Lorenzo che dalle corse dei cavalli ha dovuto fare i conti con l’eterna corsa della vita e poi si ritrova come estraneo dal suo paese natale che conserva sempre il suo ritmo atavico e l’ha come espulso da sé: “ ma che ne sa la gente, che ne sanno i muri e i ponti le chiese quanto mi è costato aggrapparmi al futuro, dare un senso ai giorni e alle notti, fatti di libri e di solitudine? Che ne sanno dell’ansia che accompagna i tuoi giorni perché ti tocca correre, lavorare, e pensare, sempre più in fretta, perché altrimenti mica ce la fai ad arrivare primo”. Alla fine Lorenzo vivrà un epilogo quasi surreale della sua vita di lavoro che staglia sulla scena il dramma dell’immigrazione. Il secondo racconto della sezione che tratta delle persone è dedicato a Rinalda, donna forte, che bada da sola alla famiglia, ma che la sua realizzazione vitale l’ha raggiunta e compiuta nella grande famiglia del sindacato e non è un caso che nella struttura a corrispondenze questa correlazione richiami ad eco il racconto del vocabolario avente sullo sfondo Di Vittorio. E non è un caso che, anche se i colleghi maschi non sempre pensano alle sue difficoltà di donna, nel sindacato Rinalda abbia imparato che “ essere una persona per bene paga, avere rispetto degli altri e di se stessi paga, perché ci permette di vivere una vita più ricca, più bella, più degna di essere vissuta.”Nel terzo racconto della serie ci viene incontro Alvise, anche qui si effettua uno spostamento nel mondo dell’ingegneria e della tecnica come il terzo racconto della serie precedente, in un’officina meccanica dove il lavaggio dei motori schiude le porte al protagonista per insegnare e raccontare la filosofia , eppure i suoi studenti sono ammaliati dalla sua parola che ripercorre la sua estate a lavare motori fuoribordo. Qui è valido quello che dicevamo prima, si sfumano i confini tra le tecniche, il racconto si nutre dell’odore di salsedine e della manualità. L’ultimo racconto della serie disegna in contrappunto una vera e propria odissea umana, costellata dalle difficoltà che significano oggi in Italia essere donna e voler fare un lavoro da uomini: la macchinista. Giovanna ha voluto questo percorso fin da ragazza ed ora si trova a dover far funzionare ed azionare tutti i comandi della sua famiglia con lo stesso metodico scrupolo e precisione con cui governa una locomotiva e lo fa con tanto impegno che in fondo è fiera di sentire che suo figlio vuole imitarla. Questo nonostante il lavoro delle ferrovie sia l’emblema stesso dello sfruttamento e della tanto osannata flessibilità. Io ho suggerito due percorsi tra i tanti del libro ed in omaggio alla prammatica delle presentazioni di libri lascio agli interessati lettori la facoltà di trovarne altri. Devo inferire tuttavia un’ultima istanza critica sul racconto cornice. Cosimo viaggia ogni volta per ritrovare il fratello ammalato e morente e vero recensore del suo libro mentre lo scrive. Attraverso la parola di Libero ripassano in filigrana tutte le voci che raccontano la loro esperienza lavorativa. Viene fuori un libro a quattro mani, se non fosse, e questo lo capiamo solo alla fine ma in una maniera del tutto spiazzante ed inattesa, alla fine intorno a questo evento e a questo libro si è costruita tutta la famiglia, nelle cantate scordate e a squarciagola, nei ricordi dell’infanzia davanti al mare, nei piccoli consigli di famiglia cui sono presenti anche fratelli che la vita ha portato lontano.
Prima di avviarmi alle conclusioni, vorrei dare corpo all’idea accennata in premessa, ovvero che questo testo letterario sia innanzitutto un potente strumento cognitivo, oltre che immaginativo, col quale è possibile dare un senso anche al lavoro, alla vita quotidiana, alle interazioni fra gli individui. In questo la scrittura letteraria si compendia con la disciplina del lavoro per la sua capacità di ipotizzare un ruolo sociale entro una comunità e di contribuire alla formazione delle identità. Se incentriamo su questo la nostra analisi, il romanzo consente di trattenere nella memoria più facilmente quei temi che rinviano alla concreta materialità dei contenuti di conoscenza.
Una peculiarità propria di pochissimi altri esempi della narrativa contemporanea che a mio giudizio fa iscrivere Testa mani e cuore nel filone di opere come La chiave a stella e il Sistema periodico di Primo Levi, Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri, La dismissione di Ermanno Rea.
Levi, Ottieri e Rea raccontano la periferia industriale cittadina e al contempo pongono il narratore come soggettività immersa in quello stesso ambiente e quindi passibile di trasformazioni. Conoscere la realtà del lavoro italiana non è un’operazione semplice, se consideriamo che lo stesso Ottieri, nel suo taccuino industriale annotava: “se la narrativa e il cinema ci hanno dato poco sulla vita interna di fabbrica, c’è anche una ragione pratica che poi diventa una ragione teorica. Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra e non si esce facilmente .Chi può descriverlo?”
La capacità di raccontare il lavoro di Moretti supera l’impasse che spesso è generata nel lavoratore dal non saper descrivere le sue mansioni, come se fosse la memoria del suo corpo a conoscere i movimenti del lavoro, non le parole: imparare il mestiere significa infatti guardare gli altri che lavorano e poi ripeterne i gesti. Con il rischio oggi più che mai incombente di un potenziale dissidio tra un lavoro condotto a regola d’arte, ma che ha perso ogni fine di utilità per il singolo e la sua comunità, elemento presente in particolare in un testo come La dismissione di Ermanno Rea, dove il personaggio di Vincenzo Buonocore è incaricato non di un lavoro costruttivo, ma del disfacimento di un grande polo industriale. Sarebbe interessante promuovere qui a Roccapiemonte un dialogo a due voci tra Moretti ed Ermanno Rea.
Riannodiamo i fili in conclusione. Dietro al libro di Moretti c’è una scommessa letteraria che è anche una scommessa ideologica: riuscire a cogliere nel lavoro l’esercizio di competenza e l’impresa creativa, in altri termini la dimensione in cui l’uomo può pienamente misurarsi con se stesso, ritrovare il gusto della sfida, ponderare ogni scelta ed in tal modo conoscersi. Il lavoro, oltre a conferire autonomia e dignità agli individui, può diventare occasione di felicità per chi vi si dedichi con passione. Questi due valori, la dignità e la felicità nello svolgere il proprio mestiere, sono incarnati da tanti personaggi di Moretti e costituiscono un trait d’union con il personaggio di Tino Faussone, protagonista del libro La chiave a stella, un operaio specializzato nel montaggio di gru e di tralicci, che è spesso in trasferta per prestare la sua opera in giro per il mondo; personaggi che amano quello che fa e cercano di farlo nel migliore dei modi. Nella sua modalità discorsiva e piacevole, Testa mani e cuore potrebbe ben prestarsi ad un percorso didattico nelle nostre scuole, alla luce anche delle raccomandazione del Parlamento e del Consiglio europeo sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente, che pongono l’accento su tre aspetti cruciali della vita degli individui, ovvero la realizzazione e la crescita personale (capitale culturale), la cittadinanza attiva e l’integrazione (capitale sociale) la capacità di inserimento professionale(capitale umano).
Mi piace chiudere proprio con una citazione da La chiave a stella
“Non è detto che l’aver trascorso più di trent’anni nel mestiere di cucire insieme lunghe molecole presumibilmente utili al prossimo, e nel mestiere parallelo di convincere il prossimo che quelle molecole gli erano effettivamente utili non insegni nulla sul modo di cucire insieme parole e idee, o sulle proprietà generali e speciali dei tuoi colleghi umani.”