Gaetano Fimiani

CRW_3806Ho letto con molto piacere il romanzo di Vincenzo Moretti, con la sua struttura di un racconto cornice che sottende un catalogo di storie brevi esemplate sul rapporto tra l’uomo e le cose. L’ho letto con piacere perché se riteniamo che la società abbia il compito primario di educare cittadini e non utili impiegati, servili, arrendevoli ed infine alienati,  e se la letteratura aiuta quanto la cultura scientifica alla formazione del senso, da contrapporre ogni giorno alla formazione del consenso e dell’omologazione, allora cultura umanistica e cultura tecnica devono essere convergenti e complementari. E questo libro lo ribadisce.

Ragionando attorno alla figura di Nikolaj Leskov, un narratore russo dell’Ottocento, il critico Benjamin accostava la figura del narratore tradizionale a quella del giusto: a quella cioè di colui che osserva e che conserva ciò che osservando ha imparato, facendosene testimone e tramite per la collettività. Compito del narratore così inteso è “ lavorare la materia prima delle esperienze”. Le figure tratteggiate da Vincenzo sono bellissime e l’articolazione, che vado ad illustrare,  ha una solidità indiscutibile.

Intorno a sette capitoli che raccontano la vicenda di malattia di Libero, fratello del narratore Cosimo, si articolano blocchi narrativi che sono intersecati e quasi osmotici fra di loro. E’ il lavoro visto dalla molteplice rifrazione letteraria dei suoi strumenti (cinque racconti), dei luoghi (quattro racconti) delle idee (quattro racconti) e del futuro (quattro racconti).  Raramente ho trovato nei libri degli ultimi anni una disposizione così coinvolgente, mossa dall’intento dell’autore di servirsi della letteratura come tramite di conoscenza dell’esperienza umana.  Nei racconti che formano il romanzo di Moretti, mi pare si possa argomentare che la scrittura stessa sia uno strumento per costruire una dimora, nel romanzo di Moretti ci si abita imparando a familiarizzare con l’esistenza e a contemplare la mappa delle sue possibilità. Più densa ed eloquente della nostra vita quotidiana, la sua pagina, intrisa del rispetto etico per il lavoro fatto bene, amplia il nostro universo e ci stimola ad immaginare altri modi di concepirlo ed organizzarlo. Già Primo Levi ne L’altrui mestiere ci ricorda che una distinzione fra letteratura arte e tecnica non la conoscevano né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Dante, né Galileo e tantomeno Goethe. Quello che la modernità si è disabituata a fare è pensare alla complessa interrelazione fra le cose, divario che ha preso sempre più campo in seguito all’automazione digitale. Oggi non si è più a conoscenza delle competenze per produrre un manufatto, la stessa realtà assume sfumature di virtuale. Nel testo di Moretti prende corpo l’idea che il testo letterario sia un potente strumento  con il quale è possibile recuperare il senso del lavoro. Moretti parte dallo strumento più semplice la cardarella, in cui consiste il fondamento del palazzo multipiano. Sollevata sulle spalle di lavoratori in equilibrio verso il cielo, la cardarella parla in prima persona, tonalità prevalente nel romanzo. Dalla cardarella si passa al vocabolario, alla necessità avvertita dallo stesso Di Vittorio che per parlare di lavoro e per il lavoro è necessario dare un nome alle cose: è uno dei miei preferiti, sembra di veder sfogliare le pagine. Un oggetto più complesso il kanban, tramato sul filo della sostituzione della meccanica fordista all’automazione giapponese, con tutte le derive di prospettiva che ne conseguono sul piano dell’occupazione e del ruolo dell’operaio. Il ritorno nostalgico al veicolo di lavoro per eccellenza, l’Ape, che diventa il locomotore del desiderio d’amore del protagonista in un viaggio dove le lotte sindacali si stagliano sullo sfondo di un amore maturo. Infine la nuvola, simbolo stesso dell’immateriale che si compone in tante forme diverse che parlano al cuore. E badate che ho parlato solo di un’ipotesi interpretativa tra le molte possibili. Proviamo a tracciare almeno un altro percorso iniziando dal secondo racconto. Il titolo spia è il lavoro e le persone, e già qui si potrebbe affermare che le cose esistono perché ci sono le persone che attraverso di esse danno un senso alla propria vita.  Percorso che inizia da Lorenzo che dalle corse dei cavalli ha dovuto fare i conti con l’eterna corsa della vita e poi si ritrova come estraneo dal suo paese natale che conserva sempre il suo ritmo atavico e l’ha come espulso da sé: “ ma che ne sa la gente, che ne sanno i muri e i ponti le chiese quanto mi è costato aggrapparmi al futuro, dare un senso ai giorni e alle notti, fatti di libri e di solitudine? Che ne sanno dell’ansia che accompagna i tuoi giorni perché ti tocca correre, lavorare, e pensare, sempre più in fretta, perché altrimenti mica ce la fai ad arrivare primo”. Alla fine Lorenzo vivrà un epilogo quasi surreale della sua vita di lavoro che staglia sulla scena il dramma dell’immigrazione. Il secondo racconto della sezione che tratta delle persone è dedicato a Rinalda, donna forte, che bada da sola alla famiglia, ma che la sua realizzazione vitale l’ha raggiunta e compiuta nella grande famiglia del sindacato e non è un caso che nella struttura a corrispondenze questa correlazione richiami ad eco il racconto del vocabolario avente sullo sfondo Di Vittorio. E non è un caso che, anche se i colleghi maschi non sempre pensano alle sue difficoltà di donna, nel sindacato Rinalda abbia imparato che “ essere una persona per bene paga, avere rispetto degli altri e di se stessi paga, perché ci permette di vivere una vita più ricca, più bella, più degna di essere vissuta.”Nel terzo racconto della serie ci viene incontro Alvise, anche qui si effettua uno spostamento nel mondo dell’ingegneria e della tecnica come il terzo racconto della serie precedente, in un’officina meccanica dove il lavaggio dei motori schiude le porte al protagonista per insegnare e raccontare la filosofia , eppure i suoi studenti sono ammaliati dalla sua parola che ripercorre la sua estate a lavare motori fuoribordo. Qui è valido quello che dicevamo prima, si sfumano i confini tra le tecniche, il racconto si nutre dell’odore di salsedine e della manualità. L’ultimo racconto della serie disegna in contrappunto una vera e propria odissea umana, costellata dalle difficoltà che significano oggi in Italia essere donna e voler fare un lavoro da uomini: la macchinista. Giovanna ha voluto questo percorso fin da ragazza ed ora si trova a dover far funzionare ed azionare tutti i comandi della sua famiglia con lo stesso metodico scrupolo e precisione con cui governa una locomotiva e lo fa con tanto impegno che in fondo è fiera di sentire che suo figlio vuole imitarla. Questo nonostante il lavoro delle ferrovie sia l’emblema stesso dello sfruttamento e della tanto osannata flessibilità. Io ho suggerito due percorsi tra i tanti del libro ed in omaggio alla prammatica delle presentazioni di libri lascio agli interessati lettori la facoltà di trovarne altri. Devo inferire tuttavia un’ultima istanza critica sul racconto cornice. Cosimo viaggia ogni volta per ritrovare il fratello ammalato e morente e vero recensore del suo libro mentre lo scrive. Attraverso la parola di Libero ripassano in filigrana tutte le voci che raccontano la loro esperienza lavorativa. Viene fuori un libro a quattro mani, se non fosse, e questo lo capiamo solo alla fine ma in una maniera del tutto spiazzante ed inattesa, alla fine intorno a questo evento  e a questo libro si è costruita tutta la famiglia, nelle cantate scordate e a squarciagola, nei ricordi dell’infanzia davanti al mare, nei piccoli consigli di famiglia cui sono presenti anche fratelli che la vita ha portato lontano.

Prima di avviarmi alle conclusioni, vorrei dare corpo all’idea accennata in premessa, ovvero che questo testo letterario sia innanzitutto un potente strumento cognitivo, oltre che immaginativo, col quale è possibile dare un senso anche al lavoro, alla vita quotidiana, alle interazioni fra gli individui. In questo la scrittura letteraria si compendia con la disciplina del lavoro per la sua capacità di ipotizzare un ruolo sociale entro una comunità e di contribuire alla formazione delle identità. Se incentriamo su questo la nostra analisi, il romanzo consente di trattenere nella memoria più facilmente quei temi che rinviano alla concreta materialità dei contenuti di conoscenza.

Una peculiarità propria di pochissimi altri esempi della narrativa contemporanea che a mio giudizio fa iscrivere Testa mani e cuore nel filone di opere come La chiave a stella e il Sistema periodico di Primo Levi, Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri, La dismissione di Ermanno Rea.

Levi, Ottieri e Rea raccontano la periferia industriale cittadina e al contempo pongono il narratore come soggettività immersa in quello stesso ambiente e quindi passibile di trasformazioni. Conoscere la realtà del lavoro italiana non è un’operazione semplice, se consideriamo che lo stesso Ottieri, nel suo taccuino industriale annotava: “se la narrativa e il cinema ci hanno dato poco sulla vita interna di fabbrica, c’è anche una ragione pratica che poi diventa una ragione teorica. Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra e non si esce facilmente .Chi può descriverlo?”

 La capacità di raccontare il lavoro di Moretti supera l’impasse che spesso è generata nel lavoratore dal non saper descrivere le sue mansioni, come se fosse la memoria del suo corpo a conoscere i movimenti del lavoro, non le parole: imparare il mestiere significa infatti guardare gli altri che lavorano e poi ripeterne i gesti. Con il rischio oggi più che mai incombente di un potenziale dissidio tra un lavoro condotto a regola d’arte, ma che ha perso ogni fine di utilità per il singolo e la sua comunità, elemento presente in particolare in un testo come La dismissione di Ermanno Rea, dove il personaggio di Vincenzo Buonocore è incaricato non di un lavoro costruttivo, ma del disfacimento di un grande polo industriale. Sarebbe interessante promuovere qui a Roccapiemonte un dialogo a due voci tra Moretti ed Ermanno Rea.

Riannodiamo i fili in conclusione. Dietro al libro di Moretti c’è una scommessa letteraria che è anche una scommessa ideologica: riuscire a cogliere nel lavoro l’esercizio di competenza e l’impresa creativa, in altri termini la dimensione in cui l’uomo può pienamente misurarsi con se stesso, ritrovare il gusto della sfida, ponderare ogni scelta ed in tal modo conoscersi. Il lavoro, oltre a conferire autonomia e dignità agli individui, può diventare occasione di felicità per chi vi si dedichi con passione. Questi due valori, la dignità e la felicità nello svolgere il proprio mestiere, sono incarnati da tanti personaggi di Moretti e costituiscono un trait d’union con il  personaggio di Tino Faussone, protagonista del libro La chiave a stella, un operaio specializzato nel montaggio di gru e di tralicci, che è spesso in trasferta per prestare la sua opera in giro per il mondo; personaggi che  amano quello che fa e cercano di farlo nel migliore dei modi.  Nella sua modalità discorsiva e piacevole, Testa mani e cuore potrebbe ben prestarsi ad un percorso didattico nelle nostre scuole, alla luce anche delle raccomandazione del Parlamento e del Consiglio europeo sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente, che pongono l’accento su tre aspetti cruciali della vita degli individui, ovvero la realizzazione e la crescita personale (capitale culturale), la cittadinanza attiva e l’integrazione (capitale sociale) la capacità di inserimento professionale(capitale umano).

Mi piace chiudere proprio con una citazione da La chiave a stella

“Non è detto che l’aver trascorso più di trent’anni nel mestiere di cucire insieme lunghe molecole presumibilmente utili al prossimo, e nel mestiere parallelo di convincere il prossimo che quelle molecole gli erano effettivamente utili non insegni nulla sul modo di cucire insieme parole e idee, o sulle proprietà generali e speciali dei tuoi colleghi umani.”

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