Nando Santoro

santoro1Dunque. E’ un’abitudine che ho da tempo. Se escono libri che hanno successo, di cui si parla tanto, che sono un vero e proprio caso letterario, generalmente li compro. E per una volta contravvengo all’aurea regola che mi sono dato, quella di entrare in libreria e comprare libri a chili, magari per il titolo, per l’argomento, per una qualche altro motivo che non sia la recensione su qualche giornale o rivista. (Una cosa che mi piace molto sono le mini recensioni scritte sulla quarta di copertina, alcune attraggono molto il potenziale lettore, ma ne parliamo un’altra volta).
Lo stesso faccio con i libri di Vincenzo Moretti. Lui mi avverte che ne sta scrivendo uno, poi che sta per uscire, poi che è uscito, poi che c’è la presentazione. Diligentemente, vado a comprarlo. (Non gliene chiedo mai una copia omaggio, anche se ci conosciamo da 35 anni. Perché? Come perché? Scusate, se avete un amico salumiere mica gli chiedete 250 grammi di prosciutto in omaggio?). E poi lo ripongo sullo scaffale, insieme agli altri Libri Che Devo Assolutamente Leggere Perché Me Ne Hanno Parlato Bene (non so se avete presente Calvino di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”).
Poi capita che per un motivo qualsiasi mi metto a guardare la libreria di casa alla ricerca di qualcosa da leggere (il 20% delle centinaia di libri che occupano casa mia è composto da Libri Non Ancora Letti, sempre per parafrasare Calvino). Così è successo con Testa, mani e cuore. L’ho preso, ho dato una scorsa alle pagine e ho visto che non era il “solito” libro di Vincenzo. Non un saggio, o una raccolta di testimonianze ma un vero e proprio romanzo.
L’ho letto in un paio di giorni fra ufficio, bagno, bus, letto e divano. E poi sono tornato indietro a rileggerne qualche capitolo: la Cardarella, la Piazza, il Salone. E poi Libero, Cosimo, Maria. Nomi inventati di persone in carne ossa, che ho conosciuto, che ho frequentato, anche se sempre maledettamente poco, e negli ultimi anni più attraverso i racconti di Vincenzo che non in presa diretta.
‘Sta cosa che le cose parlano deve essere frutto di qualche lettura di filosofie orientali da parte dell’autore. Ma non è questo il punto.
Il punto è che ci sono pagine del romanzo che sono pura letteratura. E se lo dico io, che ho sempre rimproverato a Vincenzo di leggere troppi saggi e pochi romanzi, mi dovete credere. Mo’ non è che voglio esagerare, ma alcune righe sul cibo mi hanno ricordato la triade dei giallisti mediterranei (Montalban, Izzo, Camilleri). Le pagine su Di Vittorio sono commoventi. Commovente è la storia di Cosimo e Libero, con quel filo d’ironia che porta addirittura al rovesciamento della realtà. E il papà di Cosimo e Libero, che ho conosciuto e che viene descritto esattamente così come era.
E poi questa cosa del lavoro ben fatto, della raccomandazione a metterci testa, mani e cuore in ogni cosa che fai … che è poi la cifra delle cose che ci diciamo io e Vincenzo ogni volta che ci vediamo.
Bene così, amico mio, il primo romanzo è andato bene. Ora aspetto che sbagli il secondo.

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