Mariagiovanna Ferrante

ferrante1Quando comprai  il romanzo di Vincenzo Moretti, ero già in ritardo notevole rispetto all’uscita dello stesso. Il libro era già stato recensito abbondantemente, e mi ero ripromessa di non leggere commenti per non lasciarmi condizionare. Caddi nella tentazione di leggerne uno solo, negativo. A quel punto, leggere il libro diventava una vera e propria missione: dovevo capire quanto fosse fondato il parere di quel lettore che aveva stroncato l’opera.

Ho letto il libro in una settimana, vedendo i miei ritmi rallentati da altre letture in corso e dalle inevitabili “distrazioni” del quotidiano. E ne ho tratto le mie osservazioni.

Come ogni opera del sociologo, si tratta di una riflessione sul lavoro, tema molto caro a Vincenzo Moretti e parola chiave delle sue iniziative letterarie. Quel che rappresenta una novità è l’impianto che l’autore ha voluto dare al libro: si tratta di un romanzo, appunto. Ma, se per “romanzo” si intende una narrazione organica nella quale il “plot”, la trama , si dipana a suon di prolessi e analessi, seguendo un ritmo scandito dalle vicende dei protagonisti…Si resta sopresi, quasi interdetti.  Il motivo è presto spiegato: mentre racconta la storia di Cosimo e Libero, e le loro schermaglie dolci e amare di fronte al tema della morte, ecco che l’autore inserisce altre storie, dando voce a persone e oggetti che narrano del proprio ruolo di protagonisti in esperienze lavorative.  Ho capito subito i motivi legati al giudizio negativo: una lettura distratta, superficiale, porta a chiedersi: “E questo, che
ci azzecca, che c’entra? Dove vuole andare a parare?”. E il lettore vede nel romanzo una non-struttura, caratterizzata da mancanza di organicità e di coerenza. Un lettore poco attento, però. Un lettore che, invece, non si ferma alla piacevolezza dello stile scorrevole (caratteristica che molto apprezzo in Vincenzo Moretti, che permette a chiunque di capire ciò che scrive), vede proprio in questa struttura particolare una coesione. Essa  è data dalle parole che Libero ascolta dal fratello: “ […]A me il lavoro ha dato veramente tanto […] Libero, la verità è che di belle storie abbiamo bisogno tutti come il pane, bisogna imparare a cercarle […]”. Il lavoro, senza il quale si prova scuorno, e grazie al quale si dà senso al proprio tempo. E le storie, che permettono di sperare-non solo di sognare- in un mondo in cui è sempre più difficile veder riconosciuto un diritto sancito dalla nostra Costituzione. I due elementi sono presenti nelle pagine del romanzo rincorrendosi e incontrandosi: è come essere di fronte a una scena, in cui ai dialoghi dei due protagonisti si aggiungono, integrandoli e offrendo ad essi delle variazioni, le voci di personaggi che fanno parte della storia stessa. Parlano la piazza, la cardarella, il vocabolario, una nuvola,insieme ad altre persone, altri luoghi, altri oggetti: voci di un coro che scandiscono gli atti di una vicenda, la quale si evolve sotto i nostri occhi e dentro il nostro cuore. Che ci fa sorridere e che, alla fine, ci sorprende grazie a un colpo di scena, di quelli che proprio non ci aspettiamo.

Testa, mani e cuore  è qualcosa in più di un romanzo, grazie all’effetto sopresa che lo caratterizza. In alcune sequenze, forse, ha uno stile troppo descrittivo, sebbene in altre – come quella dedicata alle braciole preparate dalla madre di Libero e Cosimo – non si potrebbe cogliere il senso del “lavoro ben fatto” senza accurate osservazioni della voce narrante su ciò che vede, o ha visto.

Alla fine della lettura, si sorride, dopo aver pianto un po’. E ci si sente al caldo, protetti dalla fiducia verso un valore – quello del lavoro – che non può e non deve essere perduto.

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...