Caro Vincenzo,
leggere il tuo romanzo è come attraversare testa, mani e cuore di un paese, il nostro, e sentirne la pulsante vitalità depositata nelle piccole cose del quotidiano, quelle piccole cose cui tu sai dar voce e dignità, restituendole alla storia e alla bellezza incantatrice del racconto. Un racconto il tuo che è anche flusso di coscienza, dove le parole accompagnano in un viaggio dentro un mondo di cui si riesce a sentire il respiro, come una nenia a cogliere il ritmo di esistenze cui volgere lo sguardo e tendere l’orecchio in un ascolto cauto che d’improvviso t’invade di sincera tenerezza e t’impone una pausa dentro quel flusso, dove cambiare direzione diventa necessario per ritrovare la forza di un nuovo inizio.
Cariche d’ironia, tra canto e disincanto, le storie ideal-tipiche di cui è fatto il tuo romanzo si aggrovigliano in un’unica trama, tessuta con cura artigiana e sapiente di chi come te vuole che il romanzare sia modus per dare corpo e voce e forma, e vita, vita pulsante, e pure malata, ferita, maltrattata, ad un pensiero, a quella che io chiamo una ‘filosofia’, che è anche un progetto, un disegno, un’idea che ha bisogno di tante e differenti teste, mani e cuori per essere attualizzata e farsi presente. Perché chi tesse la trama sei tu, riconoscibile nel tuo straniante gioco fatto di parole che sono soprattutto suono e ritmo di una lingua che si fa danza e muove chi ti legge a credere sia tutto tremendamente vero, seppure fuori dal tempo ordinario e dentro quello di una grammatica che è la tua e una timbrica che somiglia a quella di un Ulisse ritrovato.
Con lo stupore di un bambino emergo quindi dalla lettura, carica di un antico e nuovo sapere, di quella ‘filosofia’ che pervade il tuo scritto e che torna ad essere sapienza comune per chi legge perchè sente di essersi trasformato in testimone di una realtà svelata, la cui sacralità è presa in consegna e va condivisa nel pubblico dominio della piazza.
Grazie